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COMMENTO A “L’ESPERIENZA DEI COMITATI DI FABBRICA NELLA RIVOLUZIONE RUSSA” di Rod Jones

IL PROLETARIATO E LA STORIA

Tratto caratterizzante il testo in oggetto è di presentarsi come una dichiarazione di sconfinata fiducia nella capacità del proletariato di produrre e darsi organizzazione e norme proprie. Intento assai apprezzabile ma che può essere realizzato solo sorvolando o sottovalutando alcuni problemi tuttora irrisolti. Tuttavia l’esistenza di tali facoltà nel proletariato viene dimostrata coerentemente sul piano storico, cioè come narrazione di fatti. Discorso questo che emerge in contrapposizione al discorso rivale, quello bolscevico, che afferma l’esatto opposto ponendo limiti stringenti alle capacità di azione storica autonoma del proletariato. Anche per questo discorso la sua erroneità viene dimostrata nei fatti, esponendo soprattutto la pratica dei bolscevichi, che teorizzano l’assenza della capacità di autorganizzazione del proletariato. Il risultato di tale confronto è la dimostrazione che proprio il tentativo di organizzare il proletariato dall’esterno e di fornirgli una coscienza ugualmente esteriore, è la causa che impedisce il sorgere nel proletariato stesso della sua organizzazione autonoma (sempre qualificata dal partito bolscevico, con evidente disprezzo, spontanea e indice di coscienza piccolo borghese). Ne derivano due diverse concezioni dell’organizzazione, che si combattono in una lotta senza quartiere: i comitati di fabbrica e lo stato quale espressione della dittatura del partito. La prima, l’organizzazione del proletariato, dovrà scontrarsi e soccombere di fronte alla seconda, che diverrà la base sociale del capitalismo di stato, cui approderà infine la rivoluzione russa.
Lo scontro avrà luogo non tanto sul terreno teorico ma su quello pratico, dato che la questione dell’organizzazione è in primo luogo l’esigenza di risolvere il problema del controllo sociale. Infatti nel testo la critica del bolscevismo in quanto burocrazia verticistica lascia irrisolto il problema del controllo sociale, dato che si fa appello implicitamente al “bisogno di comunismo” degli operai e poco altro. E’ chiaro che, una volta rifiutato un controllo gestito da un corpo sociale specializzato, occorre sostituirlo con un controllo sociale diffuso, in forme che sono ancora da scoprire. Ad esempio, considerando il controllo sociale sul lavoro, la critica del cottimo (p.16 de L’esperienza dei comitati di fabbrica nella rivoluzione russa) non tiene conto del fatto che sotto il socialismo, garantito il lavoro e il reddito, cade l’efficacia dell’incentivo, qui negativo cioè costrittivo, a produrre costituito dalla rescissione del contratto di lavoro. Sorvolando sul motivo utopico per cui il comunismo è per definizione il regno dell’abbondanza, ciò che rende superfluo ogni controllo, o quello della “coscienza sociale”, allora l’incentivo positivo, cioè che chiama in causa l’interesse (individuale) del produttore, diviene necessariamente il cottimo. Ma il cottimo dipende dalle norme di produzione. Se queste sono fissate da un vertice esso diviene un sistema di controllo arbitrario. Se sono decise e gestite dal basso, anche il cottimo può essere accettabile. Stessa questione si pone per quanto concerne l’esercito e la polizia. In proposito ci si può riferire ad altre esperienze storiche, quindi alla Comune e alla guerra civile spagnola.
Questa, la questione dell’organizzazione, è la nota dominante del testo, cioè il rapporto del proletariato con la storia, se è immediato o deve essere mediato da un corpo specializzato, il partito d’avanguardia o altro, e in ciò rientra il problema del controllo sociale. Ma anche altri temi vengono se non affrontati almeno citati. Essi possono essere raccolti sotto due grandi questioni. Quella della proprietà, considerata in rapporto agli operai, ai tecnici e ai contadini; e la questione della transizione dal capitalismo al comunismo.

LA PROPRIETA’

La questione della proprietà sotto il comunismo non è così scontata come appare a prima vista. Che la proprietà debba scomparire nella sua forma individuale, o privatistica, è un principio assodato del pensiero comunista, quindi cosa ovvia. Meno chiaro è quale forma di proprietà venga a sostituirla. Che debba essere proprietà comune o collettiva è una semplice conseguenza dell’abolizione della proprietà privata. La questione è la forma che deve assumere la proprietà collettiva, dato che in essa si possono nascondere pericoli per la società comunista. Due forme in particolare possono essere un pericolo per il processo rivoluzionario: la proprietà burocratica, che porta al capitalismo di stato; ma anche la proprietà operaia. Mentre la prima è stata oggetto di critiche ed analisi approfondite, la seconda viene scarsamente presa in considerazione, sebbene anch’essa possa rivelarsi un ostacolo nello sviluppo del comunismo. Se l’operaismo va criticato è questa la cornice entro la quale va sviluppata la critica.
Il testo è a questo proposito paradigmatico. Si parla di gestione dei mezzi di produzione da parte degli operai, ponendo in evidenza i contrasti che sorgono con la burocrazia di partito, mentre l’idea che si scontrino due forme di proprietà non viene esplicitata. Anzi, viene adombrato il concetto di proprietà operaia, senza avvedersi del pericolo per i produttori di identificazione localistica con la propria fabbrica e la comunità operaia. In realtà non si può non condividere l’inquietudine del bolscevico Lozovsky quando dichiara che “occorre porre una restrizione chiara e categorica: che in ogni impresa i lavoratori non abbiano l’impressione che l’impresa appartenga a loro.” (pp.13-4). E’ chiaro che la critica bolscevica è mossa nella prospettiva della proprietà burocratica, ma è altrettanto vero che istituendo la proprietà operaia, che il testo auspica (Ibidem), si incorre nel rischio che la società si frantumi in un pulviscolo di piccole patrie tendenti all’autosufficienza, all’isolamento e alla realizzazione di interessi particolari (p.15). Una sorta di riproposizione in chiave moderna e tecnologicamente avanzata della comunità primitiva di villaggio. In questa direzione si è sviluppata la teoria del federalismo anarchico, l’ambientalismo, ecc.
In realtà è necessario abolire tutte le forme di proprietà, anche quella collettiva, se non quella sociale, che essendo identica alla proprietà universale della totalità dell’esistente, si nega da sé. Ma la proprietà sociale nasce proprio dalla contrapposizione fra proprietà localistica e proprietà centralizzatrice. Infatti l’antidoto contro i pericoli del localismo è la spinta alla centralizzazione dell’organizzazione della produzione. E in effetti i comitati di fabbrica operano in questo senso (pp.3,9-10,13 sgg.) Però ciò fa sorgere il pericolo opposto, quello della proprietà burocratica. Ma questa ha il suo antidoto proprio nella proprietà operaia. Si tratta di trovare il modo di contemperare questi due principi in modo che ognuno sia limite dell’altro. Una sorta di divisione dei poteri che può realizzarsi sull’esperienza delle costituzioni borghesi.
La questione viene affrontata in tutta la sua complessità da K. Korsch (Cfr. “Che cos’è la socializzazione ?”, in K. Kosch, Consigli di fabbrica e socializzazione, Laterza, 1970), che teorizza l’istituzione di due tipi di organizzazioni consigliari, i consigli dei produttori, che gravitano sulle fabbriche, e i consigli dei consumatori, che gestiscono il territorio. Così l’autogestione sorge dalla dialettica fra queste due forme consigliari. In realtà anche nel testo si accenna all’esistenza di comitati di distretto e soviet locali con cui i comitati di fabbrica sono in rapporti di stretta collaborazione, e che fanno fronte comune contro i soviet cittadini, di rango superiore, dominati da menscevichi e bolscevichi (pp.1,5-6). Ma non è chiara la distinzione tra tali organizzazioni e il loro campo d’attività. Comunque il problema non è posto chiaramente, ma solo come scontro tra base operaia oggettivamente radicale e burocrazia partitica e statale.
La proprietà è un principio giuridico, e come tale ha il suo fondamento in una prassi sociale già esistente e consolidata. Nel caso della proprietà dei mezzi di produzione tecnologicamente avanzati. la proprietà deriva direttamente dalla competenza riguardo la loro costruzione, manutenzione e uso. Invece nel testo traspare l’idea che il potere politico sia indipendente da quello economico. Anzi si suppone che il potere politico, che è la base della proprietà, sia fondato unicamente sulla forza militare. Idea questa mutuata dall’esperienza della Comune, dove il proletariato è visto più che classe si produttori, come “classe armata”. Per cui si immagina che gli operai armati possano utilizzare a loro discrezione i tecnici, cioè le loro competenze, senza che ciò determini una egemonia dei tecnici sul piano politico e quindi giuridico (p.14). Questo può anche spiegare il problema tuttora irrisolto, di come abbia avuto luogo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del PCUS, senza che fosse sparato un solo colpo, e quale sia l’origine della nuova classe dominante. Si tratterebbe di una importante verifica fattuale del materialismo storico.
Inoltre in una rivoluzione i tecnici il più delle volte sono i capitalisti espropriati o esponenti declassati della gerarchia di fabbrica, legati a filo doppio con il vecchio padronato (pp.18-9). Sono sostanzialmente capitalisti che nel capitalismo lavoravano, diversi dai semplici azionisti, solo percettori di dividendi. Per tale via i capitalisti e i loro funzionari possono recuperare un ruolo oggettivamente direttivo, e riciclarsi come burocrati, cioè come funzionari di un capitalismo collettivo, il cui prototipo è il capitalismo monopolistico.
Questa sottovalutazione della proprietà, come perno dei rapporti sociali e di produzione, che traspare dal testo, è inoltre comprovato dal fatto che viene dato per scontato che possano coesistere la proprietà privata della terra e quella sociale dell’industria (p.9-10). Non è possibile privatizzare solo in parte i mezzi di produzione. La proprietà privata genera necessariamente, prima o poi, il lavoro salariato e il profitto e tende ad egemonizzare tutta l’economia. Nella rivoluzione russa l’abolizione della NEP e la collettivizzazione forzata della terra, cioè l’espropriazione dei kulakì, fu un passo inevitabile e coerente, benché compiuto da Stalin.

CAPITALISMO E COMUNISMO: IL PASSAGGIO STORICO

Altro problema sollevato dal testo è quello del rapporto storico tra capitalismo e comunismo, quando afferma che “Metodi di produzione capitalisti possono creare solo il capitalismo” (p.17). E si riferisce alla famosa e fin troppo ovviamente criticabile affermazione di Lenin “Si, impariamo dalla Germania !”. Ridotta all’essenziale la questione verte sulla compatibilità del processo di produzione capitalistico con il comunismo. In proposito sono sempre esistite due scuole di pensiero. Quella utopistica, che fin dal tempo dei delle correnti utopiche hanno affermato che l’esistente è irrazionale e va ricostruito secondo i giusti criteri della ragione. Modernamente tale pensiero ha ripreso quota ed ha concentrato la sua critica sul lavoro e i processi di lavoro, nonché sulla sfera del consumo, rifiutando tutto quanto il capitale ha realizzato nel campo della vita materiale. Tale tipo di critica si è sviluppata soprattutto negli anni 70 e il paradigma di tale pensiero è la teoria radicale, cioè il situazionismo. Essa vede il comunismo come qualcosa di totalmente altro rispetto al capitalismo. L’altra visione è sostanzialmente quella classica, quella storica del materialismo marxiano, che considerando la storia un processo non può che considerare una fase storica come il risultato del superamento di quella precedente, superamento che avviene all’interno e per mezzo della fase anteriore.
La questione è sempre stata messa in secondo piano da un’altra ugualmente importante ma sostanzialmente astratta, quella del carattere deterministico del materialismo, problema di carattere speculativo, cioè attinente alla sfera dei principi, più che pratico. Infatti nella prassi concreta si fa semplicemente quello che si può o si deve, senza porsi questioni astratte, che di fatto sono irrisolvibili e non aiutano nessuno nell’azione. In proposito si può affermare che il materialismo è deterministico, nonostante le posizioni contraddittorie di Marx. Nei luoghi più importanti, come la prefazione del Capitale I, lo è esplicitamente, quando dichiara ”Anche quando una società è riuscita a intravedere la legge di natura del proprio movimento, … non può né saltare né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento. Ma può abbreviare ed attenuare le doglie del parto.” Ma di gran lunga più importane di questo principio generale è la sua conseguenza, che il comunismo è nella sua forma nascente un prodotto del capitalismo.
Tale constatazione non giunge inaspettata. Già Marx affermava ne La guerra civile in Francia che “La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma soltanto da liberare gli elementi della nuova società di cui è gravida la vecchia società in via di disfacimento”. Infatti se il motore della storia è lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, cioè della produttività del lavoro, il comunismo è il risultato, non necessariamente determinato, delle forze produttive sviluppate dal capitalismo. Questo non significa che tutto sia fatalisticamente scritto nel libro della storia. Man mano che partendo da questo originario stato embrionale acquista consapevolezza di sé, il movimento storico del comunismo acquisisce autonomia e può imboccare strade alternative, cioè commettere errori ed orrori, e anche rivelarsi un vicolo cieco. E non può essere diversamente, poiché si tratta di un movimento che ha il compito storico di sviluppare l’autocoscienza, quindi superare il proprio carattere deterministico delle origini. Ma può anche fallire, poiché il rischio del fallimento è il prezzo dell’autocoscienza.
Che debba superare una tale tara originaria, cioè il determinismo per potersi realizzare è indubitabile. Del resto l’inerzia della sovrastruttura rispetto al movimento della struttura, movimento accelerato dalla reciproca interazione fra i due momenti, tende ad occultare le forme primitive di superamento del capitalismo. Forme che appaiono dualistiche, cioè contemporaneamente come forme di sviluppo del modo di produzione esistente e come forme che preannunciano il suo superamento. Per il capitale lo sviluppo della divisione del lavoro manifatturiera mostra bene questo duplice carattere: da una parte ha come fine la valorizzazione intensiva (plusvalore relativo) e dall’altra la socializzazione del processo lavorativo, base indispensabile per il passaggio al comunismo. Un discorso analogo vale per il capitale monopolistico e per il capitalismo di stato, che determinano la concentrazione e centralizzazione della proprietà, premessa per l’instaurazione della proprietà sociale dei mezzi di produzione.

IN CONCLUSIONE: IL DETERMINISMO

Infine il testo tira in ballo la questione delle questioni, quella delle fasi storiche, cioè del carattere necessario dell’evoluzione sociale, quando afferma che “nella Russia del 1917 i lavoratori andarono oltre a quanto Lenin prevedeva nel suo schema di fasi storiche considerate tappe obbligate attraverso le quali la rivoluzione doveva passare, così egli li frenò” (p.21). La storia recente ha chiuso un ciclo e ha dimostrato che il bolscevismo e i suoi critici avevano entrambi ragione. Date le condizioni storiche gli uni non avevano torto nell’affermare che il capitalismo di stato era l’unica forma di socialismo possibile e gli altri avevano ragione nell’affermare che ovviamente non si trattava di comunismo, ciò che del resto i bolscevichi non hanno mai affermato apertamente, rimanendo nell’ambiguità.
Da ciò occorre trarre le conclusioni pratiche. La conseguenza principale è che in effetti se le condizioni storiche per una rivoluzione non sono mature, allora hanno ragione i riformisti e i bolscevichi. La scelta è solo quella fra un adeguamento al corso storico o la sua forzatura. L’esito della rivoluzione russa in fondo dà ragione ai menscevichi e trasforma i bolscevichi in eroi, destinati come tutti gli eroi ad una gloriosa sconfitta, in questo caso anche poco eroica. E ne escono vincitori i riformisti. Qui pare che il materialismo storico abbia realizzato il suo carattere deterministico, per cui le fasi storiche non possono essere abolite “per decreto”. Anzi sembra che qui il materialismo abbia capovolto i suoi principi, in quanto il capitalismo di stato, invece di apparire come fase storica preliminare al comunismo, diviene premessa necessaria allo sviluppo del capitalismo classico, cioè liberista.
Tuttavia questo è un discorso valido nei PVS, non nei paesi a capitalismo sviluppato. Ma in questi ultimi non è possibile determinare l’ora X nella quale esso ha terminato il suo ciclo storico. Il concetto di sviluppo è relativo, varia a seconda del luogo e del tempo. Come è relativa anche l’idea di organizzazione. In condizioni storiche sviluppate si può rivalutare l’autonomia del proletariato rispetto al principio del partito d’avanguardia. Si può affermare non solo che in tali condizioni la rivoluzione è possibile, ma lo è con il proletariato direttamente protagonista sulla scena della storia, è la produzione di un proletariato che opera in prima persona senza considerare necessaria la stampella del partito. La capacità di autorganizzazione del proletariato come totalità è la sua coscienza materiale e questa è un prodotto storico, quindi del capitale inteso come rapporto sociale antagonistico, non del partito esterno al proletariato in quanto da esso separato, che in quanto tale non è che un aspetto del capitale. Tale partito è in generale composto da elementi declassati della piccola borghesia che aspirano ad accedere a posizioni sociali che sono analoghe a quelle della grande borghesia, e che sono loro precluse. Il vero organizzatore del proletariato è il grande capitale, che organizzandolo nelle fabbriche tramite la divisione del lavoro, pur ponendo i proletari come individui isolati e in concorrenza, crea le basi per la loro organizzazione reale. Come hanno dimostrato i federati della Comune, gli anarchici in Spagna e i comitati di fabbrica in Russia.

Valerio Bertello
Torino, agosto 2012.




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